Tessera 27

Managing Transitions, un’introduzione

Quando Mr. William Bridges nel 1991 pubblicò la prima edizione del suo famoso “Managing Transitions: making the most of change“: uno dei testi fondamentali per chi si occupa di gestione del cambiamento, il mondo delle imprese – e a dirla tutta, il mondo in generale – era un’altra cosa.

Come tutte le grandi intuizioni anche quella di Mr. Bridges portava con sé due elementi fondamentali: novità e concretezza.
Novità nella lettura del cambiamento, delle sue componenti correlate, delle implicazioni nei diversi livelli personali e organizzativi con un chiaro approccio dinamico alle interconnessioni spazio-temporali tra le diverse dimensioni.
Concretezza per la capacità di recuperare dati e evidenze da decine di esperienze in giro per il mondo, fare confronti e comparazioni con l’intento di suggerire il miglior processo, la miglior strategia possibile per permettere di perseguire, cogliere e ottenere la miglior evoluzione da ogni cambiamento desiderato o indesiderato.

L’idea di Mr Bridges è che il cambiamento sia qualcosa che “succede”. Si può programmare o può essere inaspettato ma arriva con un “prima e dopo” immediato e immediatamente riconoscibile.
Altro è invece ciò che il cambiamento introduce e che in realtà ne determina non solo il risultato, ma addirittura la sua esistenza, la sua consistenza.  Questo processo spazio-temporale  (Bridges non parla di spazio-temporalità, ma a me pare un’immagine che chiarisce bene il concetto) che ha bisogno veramente dei suoi spazi e dei suoi tempi i quali si intrecciano e si influenzano reciprocamente è la transizione.

La transizione è la declinazione  “reale” del cambiamento, la sua traduzione completa.

Non gestire o gestire male i processi di transizione significa nel migliore dei casi incappare in quel tipico “mood” di lamentele, malcontento e forte calo della motivazione che porta spesso a rinunciare ai risultati più desiderabili. L’esperienza ci racconta di veri e propri fallimenti, di processi infiniti, di dispendio di risorse e energie. Tutte le aziende e le organizzazioni più o meno strutturate e complesse hanno fatto e fanno esperienza di cambiamenti che coinvolgono in tutto o in parte le loro persone: cambio di sede lavorativa, cambio di struttura organizzativa, nuovi gestionali, nuova leadership o management, cambio di strategia…E questo vale per ogni cambiamento, professionale o privato che sia, e ogni transizione che da esso ne deriva.

Un classico esempio che ha la forza dell’universalità è il trasloco, cambiare casa.
I molti che ne hanno fatto esperienza sanno bene di che cosa stiamo parlando. Nel giro di pochissimo (dipende ovviamente dalle distanze e dall’efficienza dei traslocatori…) si è altrove, fisicamente altrove, ma che cosa deve succedere perché questo altrove diventi il “nuovo qui”? Quali spazi si devono acquisire, quali relazioni costruire? E se si tratta di famiglia o di gruppo, che cosa serve a ciascuno e alle relazioni interne per arrivare a dire “ora sono qui, adesso siamo qui”? Quando la nuova casa, il nuovo luogo sarà finalmente “abitato”?
Ci sono persone che si sono spostate di centinaia, migliaia di chilometri senza in realtà mai lasciare veramente il luogo di partenza. Questo “vivere a metà” è il permanere cronico in quella zona neutra che è il passaggio da ciò che è finito  (il vero inizio della transizione) e il nuovo inizio. Impedendo al processo di transizione di concludersi alla fine rischiano di ottenere il peggior risultato: non si evolvono e -siccome nulla rimane immutato – finiscono per regredire.

Aziende e organizzazioni complesse funzionano allo stesso modo, le persone che le compongono hanno bisogno di essere supportate nella transizione.

A distanza di quasi trent’anni dalla prima edizione del suo libro, grazie anche ai progressi delle neuroscienze e delle scienze umane in genere che hanno introdotto nuove evidenze e nuovi strumenti, Mr Bridges può ancora vantare la forza della sua intuizione.

In un contesto dove il merging di grandi, medie e piccole aziende diventa quotidianità e assume una portata globale, è ormai consolidata la  consapevolezza che un supporto strutturato alla transizione, che segua processi condivisi e sappia coinvolgere l’intera dimensione aziendale con una definita interconnessione nel processo decisionale, è parte integrante di tutto il processo di trasformazione.

Il supporto di professionisti dei processi di transizione, come ad esempio coach, facilitatori, ecc…, contribuisce in modo significativo alla realizzazione della trasformazione e al raggiungimento del miglior risultato con i migliori, più efficaci ed efficienti mezzi disponibili. Garantisce soprattutto l’intelaiatura di una cultura della transizione, quella cultura che accresce la capacità di gestire in modo efficace la fase forse più delicata del processo,  quella “neutral zone” dove molto è finito e il nuovo inizio ancora deve arrivare.

Imparare a navigare l’incerto, ciascuno a modo suo e in modo sincronico nello spazio e nel tempo del proprio gruppo, è forse una delle sfide più affascinanti che attende le persone, i gruppi e le imprese nel futuro più prossimo.

“Supportare le persone nella transizione è essenziale. […]
Quando un cambiamento avviene senza che le persone passino attraverso una transizione, è solo un “giro di sedie”

(William Bridges)

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